sabato 4 agosto 2007

Il Canto di Antija - 2

Guerra


«Comandante! È arrivato un messaggero da Corte.»

Kurt Sprengler vagava ancora alle porte della veglia, limbo su cui molti si soffermano prima di ricordare al corpo che l'alba è giunta.

Ma l'alba era ancora lontana, e le manovre della giornata precedente avevano fiaccato la sua forte fibra che necessitava ancora del giusto riposo, nonostante fosse avvezzo a dormire per poche ore. La parola « Corte » gli rimbalzò nelle orecchie come un suono di serpente a sonagli, stimolando in lui una eguale spinta a scattar in piedi. Ancora assonnato, strappò dalle mani del messo appena entrato in tenda, incurante delle regole di campo, la lettera scritta con grafia elegante a caratteri d'oro, sigillata con un il reale sigillo, due cuccioli di drago attorcigliati per la coda e curvi a formare una quasi spirale, la grande lettera G iniziale della famiglia reale.

Il messo, un giovane cortigiano che Kurt ricordava di aver visto in almeno un paio di occasioni, gli stava suscitando un innaturale fastidio. Forse lo aveva visto in compagnia di qualche generale. Il suo sguardo calmo e diretto tradiva una arroganza smisurata, cui il comandante rispose con un rauco e lungo risucchio gutturale seguito da un grosso sputo vicino ai piedi del nobile. In quel momento lo colpì un pensiero, un primo accenno della ripresa lucidità della veglia, con la violenza di uno schiaffo inatteso.

«Heinzer!» urlò con rabbia

«Sissignore!» rispose all'istante la voce che poco prima lo aveva svegliato. No, non era la sua nottata fortunata, penso Kurt.

«Da quando due guardie permettono ad un estraneo di entrare nella tenda del loro comandante, infischiandosene della consegna?»

Imbarazzato, Heinzer notò soltanto allora che il messo lo aveva seguito fin dentro la tenda.

«Comandante ...»

«Sbatti quei due imbecilli ai ferri, dopopranzo sentirò cosa hanno da dire, e sostituiscili all'istante con altri due che sappiano rispettare gli ordini!»

«Sissignore» Heinzer uscì dalla tenda come se ne fosse stato calciato fuori, imprecò con le due guardie che, con le aste delle lance da campo che sferragliavano sull’armatura, si allontanarono. Non passarono che una manciata di secondi, prima un rumore ben cadenzato di nuovi passi si dirigesse verso la tenda dell’ufficiale, fermandosi sulla soglia e sostituendosi in un silenzio.

Intanto, Kurt aveva rotto i sigilli del plico, cercando di evitare lo sguardo del giovane tuttora in piedi che, dopo aver atteso un permesso che evidentemente non sarebbe giunto, prese posto nell’unico sgabello, incrociando le gambe mentre l’altro bofonchiava nervoso mentre leggeva la pergamena.

I pochi minuti necessari all’uomo per leggere la lettera permisero allo straniero di vagare con lo sguardo nella tenda del comandante del distaccamento “Leoni di Guardia” dell’esercito di Alavistian. Una luce fioca, una lampada ad olio che il comandante voleva sempre accesa nella tenda, era poggiata su una bacinella d’acqua posta ad una estremità del grande tavolo centrale. L’altra estremità era impegnata da mappe della zona, con indicazioni di falsi spostamenti delle truppe di confine.

Kurt riavvolse la pergamena ed iniziò lentamente ad accarezzarsi la folta peluria del mento guardando in direzione della lanterna, con lo sguardo che appariva concentrato sui pensieri piuttosto che sulla fiammella.

Ravvivò la lanterna e si sedette, stanco, sul giaciglio che sentiva avrebbe dovuto abbandonare di lì a poco.

«Uff’! Adesso che ho letto l’-urgente- messaggio mi dica: che diavolo mi ha svegliato nel cuore della notte?»

Il messo non aveva mancato di osservare ogni minima azione del capitano, fissando lo sguardo sul volto e sugli occhi del militare, che reggeva fermo il confronto. Nonostante la fermezza dello sguardo del giovane e la sua compassata figura, un baluginio nei suoi occhi tradì un accenno di stupore alla domanda.

La risposta si fece attendere alcuni istanti, andando a precedere la voce di Kurt che, stanco e nervoso per la notizia appresa, stava per andare in escandescenze:

«È guerra»

Kurt non distolse lo sguardo. Era diventato veterano a Faradea, combattendo contro i clan orcheschi fino al Trattato di Klavido, che sanciva l’integrazione dei loro possedimenti e delle loro genti al Regno, neanche dieci anni prima. Comunque, non poteva perdere la freddezza che considerava propria di un combattente per una notizia del genere, o non sarebbe stato degno del grado che si trovava a rappresentare. Serrando la corta barba brizzolata nella mano attese che l’uomo continuasse il discorso, volendo dare l’impressione che nulla fosse scontato nella parola che il nobile aveva appena pronunciato.

Il messo continuò, titubando leggermente imbarazzato.

«… quindi il nostro Signore ha mandato me, duca Wittgen von Hobenstrüff, quale messo personale per poter dare ulteriore conferma della vostra provata fedeltà alla causa, al Regno e, soprattutto, ad Hernest IV Cröne di Loviatar, alla protezione del cui regno lei ha prestato giuramento.»

Il leggero accento sul proprio titolo parve far vacillare l’imperturbabilità del nobile, infastidito dai modi diretti del militare.

«Per questo, quindi …»

«Come comprenderà, abbiamo il compito di far si che gli eventuali imminenti scontri si concludano nel minor tempo possibile e occorrerà, per questo, un coordinamento tra i vari fronti dell’esercito. Questo solo se si mostrerà una fedeltà assoluta all’Imperator. Lei è pronto a confermare la sua fedeltà alla casa di Loviatar?»

Senza mostrare incertezze, Kurt si tirò in piedi e divaricò leggermente le gambe, prendendo la lettera in una mano e accarezzando l’elsa della spada con l’altra.

«Signore, io ho qui dinanzi a me un foglio imbrattato –senz’altro un eccellente falso– ed un nome che non conosco. A quale titolo può pretendere una risposta che sia diversa dallo sbatterla ai ceppi in attesa di un carnefice?»

«A questo titolo» la replica rapida del duca, che stava alzando la mano, fu anticipata da Kurt che estrasse fulmineamente la spada dal fodero vicino per puntarla alla gola dell’uomo.

«E senza movimenti bruschi, signor duca» Il tono dispregiativo del “signor” venne ad attenuarsi quando la fioca fiamma della lampada illuminò l’anello d’oro bianco al dito indice del messo, su cui spiccava il simbolo di un leone rampante con la metà inferiore terminante in una coda di pesce. Avvicinandosi, Kurt notò le due stelle di zaffiro ed il disco lunare in ossidiana che incastonavano la testa dell’animale.

Tale anello indicava, dovunque nel regno, un potere secondo soltanto a quello di Beltor I Feodor di Ghada e di Hernest IV Cröne di Loviatar.

Il Comandante Kurt piantò la spada nel terreno assumendo una posizione rigida, in piedi con le gambe adiacenti; alzò quindi la mano destra aperta, stringendola poi a pugno e portandola verso il petto nel pronunciare il saluto militare di Loviatar. «L’Imperator Comanda. L’Imperator Vince. Onori, Lode e Vittoria al nostro Imperator.»

«Il Vostro potere è il Suo potere» Nella frase dei servitori della corona «Egli ha la mia fedeltà, la mia vita, la mia opera». L’atteggiamento istantaneamente rispettoso strappò al duca un sorriso di compiacimento.

«Bene. Se così è, ho degli ordini ben precisi da parte di Sua Maestà per la vostra guarnigione.»

Nell’attesa che venisse dato l’ordine di riposo, il militare rimaneva immobile nella sua rigida posizione. Lo sguardo del duca osservava la scena compiaciuto, mentre la mente di Kurt ricordava.

Egli vagava in ricordi non tropo remoti, risalenti alla sua vita di soldato a Faradea. Là si era compiuta la maggior parte della sua fortuna, dato che il Fato lo aveva voluto prima soldato semplice poi veterano, quindi sergente, tenente e, sostenuto dalle sue capacità tattiche, Comandante di Divisione nell’arco di soli dieci anni di guerra.

Lo avevano premiato il suo valore, innumerevoli scontri e la sua abnegazione pressoché cieca alla causa di Alavistian, oltre alla sua capacità di eseguire alla lettera gli ordini impartiti.

Nonostante questo, aveva accolto con piacere la notizia che il Re, con l’editto presto conosciuto “del Movimento”, ordinava alle cariche pubbliche e militari uno spostamento in altre zone del regno. Le sue origini si perdevano nelle acuminate zone montuose di Faradea in cui non ricordava risiedere alcun parente stretto, mentre da alcuni anni risiedeva in Loviatar e, dopo il matrimonio con Sonja Ürshel era considerato loviatariano a tutti gli effetti.

Wittgen, accarezzandosi il ciondolo argenteo al collo, pareva in attesa; concentrato, soppesava il comportamento dell’uomo in abiti da notte che aveva di fronte. Per tutto il tempo non aveva perso la sua aria sicura e ferma. Nonostante fosse discendente di nobile casata e, come molti della sua stirpe, un privilegiato nullafacente, Kurt era incuriosito dallo sguardo fermo ed intenso di quell’uomo. Gli occhi gli ricordavano quelli di un gatto ansioso di affondare gli artigli sulla preda, e parevano leggere la gabbia dei suoi pensieri come se stretta tra mura di trasparente cristallo.

Il nobile si stava gustando la consapevolezza del rischio corso.

Il suo compito era uno dei più ardui, selezionare ed entrare in contatto con uomini dotati di profondi legami con la terra di Loviatar e la sua gente, oppure individui di spicco della società avversi od invisi al potere centrale. Aveva analizzato centinaia, forse migliaia di nomi che le spie del regno avevano raccolto negli ultimi dieci anni, scegliendo gli argomenti più consoni a conquistare l’appoggio di un generale, di un ministro, di un sacerdote, financo di un borgomastro che potesse appoggiare la causa.

Soltanto, quest’uomo era stato l’ultimo della lista. Un comandante brillante secondo tutti i suoi avversari –la migliore garanzia, in questo campo–, frenato nella carriera soltanto da un trasferimento arrivato forse troppo presto, fedele alla corona ma legato agli uomini del nord. La sua risposta all’ordinanza di mobilità fu un conciso «obbedisco», e la sua abnegazione nei confronti del potere costituito pressoché cieca. Un uomo che poteva mandare tutto all’aria con un colpo di spada.

«Ho giurato di difendere il Regno di Alavistian e la gente di Loviatar. I regni sono solo nomi vuoti senza le persone che li fondano. La mia vita sarà al servizio delle genti di Loviatar.»

La gemma al collo del duca emise un lieve baluginio e si spense, nel cangiante argento del monile.

«Tutt’altro Comandante! Si conceda il riposo: sarà uno degli ultimi momenti in cui potrà concederselo.

«Invierò subito un messaggio al Re in cui parlerò della sua decisione. Mi permetta di riferirle, da parte del nostro Signore, che la sua fedeltà a Loviatar è profondamente apprezzata e sarà ricompensata nella maniera più adeguata.

«Adesso devo proseguire: la mia missione non è ancora giunta al termine. Tra l’altro avrei necessità di un giovane fidato e discreto che mi accompagni negli ultimi giorni di viaggio, dato che dovrò dirigermi in un luoghi ostili. Nella sua guarnigione c’è qualcuno con tali caratteristiche?» Alle orecchie del guerriero la lingua del duca pareva sibilare di gioia, infastidendolo non poco. Kurt, sempre immobile nella sua posizione, pensò un momento prima di ricevere il riposo:

«Ah, ma si metta pure comodo, comandante. Sa, non sono abituato a dare ordini a militari.» Il tono divertito lasciava comunque intendere altro, mentre il sorriso dell’uomo mostrava una inquietante dentatura appuntita che rese più difficile un rapido rilassamento.

«Se me lo sta chiedendo con la Sua autorità, non mi è dato negarle nulla. In caso diverso, sono tenuto a rammentarle che i militari non possono venire impiegati se non per attività direttamente gestite dai gradi dell’esercito.»

«Bene! Faccia apprestare un alloggio per me, stanotte. Domani mattina, partirò di buon’ora con il soldato scelto da voi, richiesto da me con l’autorità dell’Imperator per svolgere una missione ufficiale. Spero che adesso mi scuserete, ma sono affaticato dal lungo viaggio.»

detto questo, il Duca uscì per dirigersi verso il fuoco di campo, acceso in quella fresca notte di fine estate. Kurt imprecò in silenzio, finalmente liberato dallo sguardo di quell’individuo.

«Già … gli occhi» pensava mentre era intento a pianificare gli spostamenti dell’indomani, consapevole che il sonno non sarebbe tornato facilmente. Sicuramente, non più per quella notte, almeno.

Continuava a pensare agli occhi dell’uomo che si era presentato come duca Wittgen von Hobenstrüff … il nome non gli era del tutto nuovo, ma non riusciva a ricordarsi dove poteva averlo già sentito.

E poi … quegli occhi …

Lo sguardo del duca era più simile a quello di un rapace piuttosto che umano: gli occhi cerchiati (forse dalla stanchezza del viaggio, si voleva convincere Kurt) in quel volto giovane lo rendevano almeno quindici anni più vecchio.

E le mani … piene di chiazze malamente camuffate con talco, lavato via da sudore e dai guanti … apparivano estranee a quell’individuo curato ed apparentemente sano.

Già! Erano elementi su cui si sarebbe soffermato a pensare, ma soltanto in seguito.

Le notizie che quello strano individuo recava con sé erano gravi e richiedevano ogni sua attenzione: aveva una guerra davanti, dopo tanto tempo.

E, quale che fosse il costo, intendeva vincerla.

[ ... continua ... ]

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