venerdì 27 luglio 2007

Cauni e Gatti - Preludio

Tutti gli Incubi vengono per nuocere

Il cauno ruotò la testa in direzione di Relsa.

I neri occhi acquosi la scrutarono malevolmente, esaltando poco a poco l’increspatura delle lebbra mentre stavano scoprendo i denti, di un biancore innaturale, in un sorriso distorto.

Se Relsa avesse potuto vederlo adesso, ne avrebbe senz’altro provato il più profondo orrore, ma tre fortunosi ostacoli si presentavano tra lei e tale evento: in primo luogo, era una notte scura e buia, dove una fitta coltre di nubi celava la terra allo sguardo delle lontane stelle, uniche dominatrici di quella sera; in secondo luogo, Relsa stava dormendo; infine, il cauno era soltanto il parto invisibile della sua fantasia di bambina.

Ora, dire “soltanto” indurrebbe le menti comuni a cadere in un errore abissale, dato che spesso la fantasia è decisamente più varia, articolata e vissuta rispetto alla realtà, in particolare quando si hanno due soli anni, come Relsa.

Relegare il cauno a tale ambiente offriva quindi la comodissima illusione che la bestia non fosse lì, e che pure non esistesse, in quanto parto di fantasia: ciò nonostante le azioni più reali, le pulsioni più elevate e i sogni attuati affondino in essa la loro più solida radice, sebbene ben di rado se ne consideri il valore, e tutto solo perché i parti della fantasia di rado sono associati a qualche evento reale.

Soltanto perché i cauni avevano sempre voluto così, non significa che ciò fosse vero. La situazione stava però cambiando.

Nonostante la sua evidente esistenza -evidente per se stesso-, comunque, il cauno continuava ad osservare Relsa, avvicinando il suo muso caprino ai suoi capelli, fin quasi a sfiorarla con il sudicio ciuffo di peli ispidi posto ad ornargli il mento.

Relsa rabbrividì per un istante a quella vicinanza, come se fosse stata sfiorata da un’ombra gelida, e per poco non rischiò di svegliarsi dal suo piccolo sonno.

Sotto le palpebre gli occhi si muovevano, come in cerca di qualcosa, e la piccola figura nella culla iniziò a muoversi a scatti e singhiozzi, rugolando versi incomprensibili mentre continuava a dormire.

Il cauno sorrise, compiaciuto del nuovo incubo appena creato, e si assopì.

* * * * * *

Fu mattina.

Relsa si era svegliata da una buona mezz’ora e stava lì, distesa nel suo lettino, con lo sguardo estatico di un bimbo a cui fanno vedere una lucina che si accende e spegne e disegna magici animali sul muro.

Sopra di lei, il cauno stava disteso a mezz’aria, galleggiando ed oscillando neanche mezzo metro sopra di lei. Sembrava che respirasse debolmente e ad ogni inspirazione si abbassava acquisendo densità, mentre con l’espirazione ritornava un che di traslucido mentre lentamente saliva in alto, a metà altezza della stanza.

Si svegliò e si mise a guardare la bimba il cui sguardo era apparentemente rapito dal soffitto. Conscio della sua natura, si avvicinò lentamente con il pizzetto al naso di Relsa, esponendo in un sorriso fiero e beffardo i candidi denti scheggiati.

Relsa lanciò un grido acuto. Il cauno mosse di scatto la testa indietro, fermo con il corpo ma ripiegando il lungo collo, stupito per una tale reazione.

Si mosse di lato e vide che gli occhi della bimba lo seguivano.

Un passo incalzante dopo l’altro, la porta venne quasi sfondata da una madre sconvolta. Le bastò un’occhiata per vedere che era tutto tranquillo e si calmò rapidamente mentre si muoveva premurosamente verso il lettino della bimba, passando attraverso il cauno.

«Mamma…lì…brutto»

La mamma la prese in braccio e si voltò. I lineamenti del volto preoccupato erano estremamente tirati, ma non vide nulla. Non si accorse del cauno che le saltellava intorno, tornando a vedere Relsa senza l’ostruzione della più massiccia madre. Sorrise di gioia quando la bimba, che l’intervento della madre stava iniziando a calmare, iniziò nuovamente a piangere dopo aver guardato verso la sua direzione.

Verso di lui.

Lo aveva visto.

Mentre la madre portava Relsa nella stanza inferiore della casa, sottraendola a quella stanza che sembrava incuterle timore, il cauno si esibì in una danza frenetica cantando a squarciagola parole senza senso in frasi sconnesse, fino a rimanere senza fiato. E spossato. E circondato da teste.

Un numero impressionante di teste.

Di altri cauni.

[...continua...]

Il Canto di Antija - 1

Le Colline di Polvere

La mattina presto, poco prima dell’alba, la temperatura scende al valore più basso della giornata.

Il vento, carico di tutto il gelo accumulato nella notte, taglia il volto con acuminati coltelli di ghiaccio. Il corpo, ammantato in stracci cuciti insieme da vecchie vesti sfilacciate, sosteneva a stento il passo sempre meno rapido della figura curva stagliata sulla cima delle Colline di Polvere. Un inarcamento della schiena era tutto quello che si riusciva a capire della fisionomia del proprietario di quelle vesti, quasi per uno scherzo della natura accompagnata da una struttura fisica possente. La sua sola presenza in quel punto sarebbe risultata comunque trascurabile, se non altro perché il passo incerto pareva tradire una spossatezza destinata, di lì a breve tempo, a trasformare questa gelida alba invernale nell’ultima vissuta dal viandante.

Un ultimo passo, quindi il piede si ferma. Un suono lento e lugubre accompagna adesso le lame di ghiaccio. Il canto …

« Qualcuno … è vicino … »

Un attimo di indecisione, poi il corpo cade sulla polvere compatta producendo un sordo tonfo, a malapena attutito dagli stracci. Qui giace, immobile, come morto. Trascorrono lunghissimi istanti in cui il suono si fa sempre più vicino e minaccioso, fino a che un rumore simile a rami spezzati, o a quello che potrebbe produrre un sacchetto pieno di ghiaia, non termina a pochi passi dalla polvere dove giace.

Rosmun, riverso a terra, aprì gli occhi per cercare di sbirciare la figura in piedi dinanzi a lui. Non aveva fatto ancora i conti con la stanchezza che sconfiggeva il suo corpo e stravolgeva la sua mente. Aveva passato le ultime settimane da solo, esplorando un’area di migliaia di ettari in cui il tono dominante era un lugubre grigio cenere, quasi completamente priva anche delle più semplici forme di vita, e questo lo rendeva vulnerabile a qualsiasi aggressione, ne era cosciente con l’ultimo barlume di razionalità rimastogli. Soltanto adesso si rendeva conto che erano non meno di tra giorni che camminava senza aver fatto alcuna sosta, avvolto nelle tenebre più o meno dense che talvolta si sviluppano in queste terre desolate. Si stupì a chiedersi quanto temo era passato dall’ultima volta che aveva incontrato un essere vivente … giorni, settimane … foirse anni?

La mente lentamente cedeva. Sarebbe così finito il tormento che lo angustiava. Finalmente, senza strepiti né esplosioni, senza nessuno che lo piangesse, solo come era stato in vita. Quasi rimpiangeva la presenza di quella creatura intorno che rendesse meno perfetta la sua dipartita, o forse era stata inviata da una delle divinità da lui maledette per prendersi l’ultima rivincita su questo misero corpo, martoriato da decenni di sofferenze.

Comunque fosse andata, finalmente stava per incontrare l’unico abbraccio che aveva sempre sentito vicino a sé, l’unico che poteva accettare senza temere la repulsione per il corpo deforme che lo accompagnava fin dalla nascita. Un ultimo respiro, e poi …

><><* * * - - - * * * * * * - - - * * * - - - * * * - - - * * * * * * - - - * * *><><

Era troppo stanco per pensare.

Era troppo stanco anche per rendersi conto che veniva sollevato come una spiga di grano da una figura che fino a poco prima lo stava guardando incuriosita per la strana scoperta.

« Che strano » pensava Rosmun « non voglio morire »

Il volto del soccorritore spiccava sotto il cappuccio. Soltanto, non aveva l’aspetto di un soccorritore. Innanzitutto, mancava qualcosa.

Era sicuramente necessario qualcosa a quel volto, occorreva dannatamente quello per rendere quel volto più reale. Troppo affilato, troppo inespressivo, troppo cinereo. In preda alla confusione e dopo settimane di isolamento dal mondo, Rosmun faceva fatica a capire cosa non andasse, ma qualcosa gli sfuggiva, qualcosa che si trovava lì, dannatamente davanti ai suoi occhi. Le ultime gocce di coscienza scivolavano rapidamente via rendendogli difficile associare le idee, ma il suo istinto lo spingeva a divincolarsi. Soltanto gli occhi di quella creatura lo calmavano. Due occhi di un turchese brillante e sfacciato, accesi di vitalità e di forza, dall’iride marcatamente nera come la notte, che adesso lo guardavano fisso. Il sorriso era eccessivo, pareva non finire con il volto ma continuare oltre i limiti che la natura aveva messo alla sua faccia, un volto scarno e consunto. Eppure il suo corpo non riusciva a fermare un brivido ed una emozione che gli riscaldava il sangue; ogni parte del suo essere pareva gridare qualcosa che la sua mente non riusciva a collegare a ciò che vedeva. Soltanto un ultimo guizzo di coscienza gli fece notare il naso piatto e le froge enormi, innaturalmente troppo aperte, incavate al centro di un volto chiaro e levigato.

Una faccia lucida e liscia, come solo un cranio appena spolpato poteva essere. Un teschio ghignante su cui spiccavano i due bulbi oculari, privo di qualsivoglia parvenza di carne e con la dentatura perfetta e con gli occhi fissi sul suo volto, avvolto da un manto nero pece.

« non è arrivato il mio momento … non deve … non a me! » Fu l’ultimo pensiero che attraversò la sua mente stremata mentre tentava di dimenarsi. Il suo corpo reagì a questo guizzo di energie con l’unico movimento sincopato della mano destra, poi il buio lo avvolse, un’oscurità ben più tetra della notte, che solo si può trovare sulle Colline di Polvere.

[...continua...]